Nella giornata internazionale dedicata alla lotta alla discriminazione razziale, la storia ci sussurra una data: 1968. Così guardando verso ovest, la nostra mente ripercorre le pagine di un evento senza precedenti scritte in Messico attraverso una cronaca sportiva divenuta gesto clamoroso di ribellione.
Era l’anno in cui ci si preparava alla diciannovesima edizione dei giochi olimpici estivi, quelli di Città del Messico. Lo stesso, noto soprattutto per l’assassinio di Martin Luther King e per le proteste globali di grandi movimenti di massa: il movimento del Sessantotto.
Infatti, anche nel cuore del continente americano, migliaia di studenti si riversarono lungo le strade. Contestavano il governo e l’ingente quantità di denaro spesa per l’organizzazione dei giochi.
Pertanto l’allora presidente del Messico, Luis Echeverrìa Alvarez, non esitò e dette immediatamente ordine di reprimere duramente le sommosse popolari. I morti furono circa 50 e tra i 700 feriti ci fu anche la giornalista italiana Oriana Fallaci.
Nonostante il clima di tensione che precedette quelle Olimpiadi, i giochi si disputarono. Così, il 16 ottobre, il mondo assistette alla finale olimpica dei 200 metri piani. La premiazione, che avvenne il giorno dopo, rimarrà scolpita nella storia per sempre.
La premiazione e la protesta silenziosa
Due statunitensi percorrevano il campo bagnato a passo lento e deciso, seguiti con rispetto dal rivale australiano. Solo 24 ore prima l’americano di colore, Tommie Smith, aveva fermato il cronometro a 18,83 secondi, stabilendo il nuovo e sensazionale record del mondo nei 200 metri piani. Secondo l’australiano Peter Norman e terzo il connazionale John Carlos. Al momento della premiazione, quando tutti e tre i vincitori salirono sul podio, i due atleti americani alzarono il braccio che inforcava un guanto nero, abbassarono il capo e ascoltarono il loro solenne inno a piedi scalzi. Indossando inoltre il distintivo di propaganda del progetto olimpico a favore dei diritti dell’uomo. Stessa cosa fece l’atleta australiano per solidarizzare e sostenere la loro battaglia.
Durante la conferenza stampa Carlos spiegò i segnali della protesta: i piedi scalzi simboleggiavano la miseria, il guanto nero (simbolo del movimento politico radicale a favore dei diritti dei neri americani, le pantere nere) ricordava tutti i lutti dei neri.
Per quanto pacifico, nobile e coraggioso fu quel gesto, per via del suo carattere sovversivo, i due statunitensi furono espulsi dal villaggio olimpico e subirono, negli anni seguenti, pesanti ripercussioni sulla loro carriera sportiva. Ma poco importava, ciò che valeva di più era che il mondo fosse venuto a conoscenza della loro protesta.
Così infatti dichiarerà Tommie Smith:
Lottiamo per i diritti civili, se fossero uguali per tutti queste cose non accadrebbero
La stessa scena si ripeterà durante la premiazione dei 400 metri. Lee Evans, Larry James e Ron Freeman si presentarono sul podio con un basco nero come segno di protesta e anche loro furono espulsi dal villaggio olimpico.
Nel 2006, si celebrarono i funerali di Peter Norman, deceduto improvvisamente. L’australiano, dopo le olimpiadi, venne ghettizzato in patria per il suo gesto di solidarietà compiuto nei confronti dei rivali afroamericani. Anche Tommie Smith e John Carlos presero parte alle celebrazioni e vollero portare il feretro del compianto atleta, ricreando quella triade che molti anni prima fece riflettere il mondo.
L’Australia ha riconosciuto il coraggio di Peter Norman solo nel 2012.