Con quali parole affrontare oggi, 27 gennaio 2022, l’argomento della Shoah? In che modo interfacciarsi a quell’indicibile passato?
Intanto niente di ciò che è passato non ci appartiene. Se poi ci riferiamo ad anni, sorprendentemente vicini al nostro contemporaneo, quel che fu ricade prepotentemente sull’incedere del nostro tempo. Perché, citando Primo Levi “E’ successo quindi può succedere di nuovo” e quando è il male a minacciare il nostro quotidiano, missione di ogni uomo è vivere di memoria per combattere l’oblio. Che, come un buco nero, risucchia ciò che è stato e ci lascia vivere inconsci di ciò che sarà.
Occorre così affidarci ai ricordi di coloro i quali, hanno vissuto ingiustamente nell’inferno, ma da quell’inferno sono sopravvissuti e lo hanno potuto raccontare.
Oggi, è dall’umanità di Sami Modiano da cui ci lasciamo invadere il cuore e la mente. Per catapultarci in un’angosciante frangente storico, attraverso le pagine del suo libro “Per questo ho vissuto: La mia vita ad Aushwitz-Birkenau e altri esili”. Impossibile trattare nella sua interezza, tutti gli episodi descritti nel libro. Pertanto si è scelto di indagare maggiormente tutti i momenti che segnarono la comunità ebraica, a cui apparteneva Sami, fino all’arrivo al campo di Auschwitz. Da lì il racconto si farà sempre più generale. Ma si darà spazio alla narrazione di un episodio tra i più toccanti, intensi e significativi dell’intera storia di Sami Modiano. In quanto uomini, è nostro dovere sapere.
L’isola di Rodi e il viaggio della morte
La storia di Sami Modiano ha inizio a Rodi, la splendida isola situata nel mar Egeo. Appartenente all’arcipelago del Dodecaneso che rientrava allora sotto il dominio del Regno d’Italia. Dove Sami viveva in armonia e pace con la sua famiglia e con la comunità ebraica di Rodi. In cui il senso di comunità era più, molto più di un mero concetto relativo a una congregazione religiosa. Lì si viveva animati da un forte sentimento di unione, rispetto, disponibilità e gioia che nel giro di pochi tempi, le leggi razziali e la deportazione avrebbero compromesso e spezzato in maniera quasi irreversibile. Quadri idilliaci, atmosfere calde e il cristallino mare che avvolgeva l’isola, in cui qualsiasi siciliano può riconoscersi, allietavano la fanciullezza di quel giovane rodiota, che dallo stesso vengono descritti e raccontati.
La sua famiglia era costituita da Lucia, la sorella di tre anni più grande e il papà, Giacobbe. La sorella, che alla morte della madre avvenuta prima della deportazione, si era saggiamente sostituita a lei, protesse e si prese cura del fratello fino all’ultimo momento, fino all’arrivo sulla rampa di Birkenau, che li divise per sempre.
Lucia sentì un naturale e istintivo bisogno di farmi da mamma
Che fossero ebrei non importava a nessuno, almeno fino al 1938. Quando una mattina, Sami, che allora aveva otto anni e mezzo, venne espulso dalla scuola dal maestro che amava tanto. Fu prontamente tranquillizzato dallo stesso che, gli pose con affetto una mano sopra la testa, ma questo non bastò per risollevare l’animo di un bambino mortificato e indaffarato solo a essere pronto per l’interrogazione del giorno.
E’ stato un dispiacere enorme, il mio primo impatto con la realtà. Quel giorno ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La notte mi addormentai come un ebreo
L’8 settembre del 1943, l’isola fu invasa dai tedeschi. Il cibo iniziò a scarseggiare e Sami trovò un lavoretto per poter sopperire a mancanze che ben presto sarebbe diventate vere e proprie privazioni.
Io avevo tredici anni, per quei tempi ero un maschietto già buono per faticare. Capivo il dolore di mio padre e decisi che era mio dovere dargli una mano
All’inizio del 1944 le condizioni di vita degli ebrei peggiorarono ulteriormente. Ma tutti, nonostante il cruento rigore e la perfidia dei nazisti, erano ignari della morte che li avrebbe attesi a Nord dell’Europa.
Scartata l’ipotesi della fuga, a noi ebrei di Rodi non restava che attendere la fine
Il giorno dell’arresto avvenne in una calda mattina di luglio. I tedeschi diramarono l’ordine a tutti i capifamiglia, di presentarsi muniti di documenti. Arrivati lì le persone furono sequestrate e i loro documenti derubati. Il giorno successivo arrivò un altro ordine, ovvero che tutti i congiunti dei capofamiglia convocati dovevano prepararsi per un viaggio e presentarsi alla Kommandantur, il comando che i nazisti avevano predisposto nell’ex caserma dell’aeronautica italiana.
Tutti quelli che conoscevamo stavano condividendo il nostro destino, eravamo uniti anche in un’ora di paura, di incertezza, come sole le vere famiglie sanno fare
Ma in poco tempo capirono che avrebbero lasciato l’isola per recarsi in un campo di lavoro.
Nessuno però ci aveva detto che la nostra idea di peggio era uno scherzo in confronto all’inferno che ci attendeva
Furono pertanto scortati dai nazisti verso il porto, in fila per cinque e con l’ordine di non alzare la testa. Chi lo faceva veniva picchiato come chi non camminava.
Durante la discesa, in tutti noi c’era una specie di malinconia, una specie di dispiacere profondo che è difficile da spiegare. Non c’era mai successo di ricevere ordini così infami e umilianti. Non riuscivamo a capire”
Il 23 luglio 1944 faceva molto caldo.
Ci hanno buttato dentro le stive che ancora sapevano dell’urina e degli escrementi degli animale trasportati di recente. C’era ancora questo odore fortissimo di sporco e da lì a poco anche noi saremmo stati trattati come bestie
C’era un caldo da morire, i tedeschi ci avevano lasciato soltanto cinque secchi d’acqua e un bidone
Negli stenti di un maltrattamento premeditato, quel viaggio, diretto al porto di Atene, unì nel dolore la comunità ebraica che pian piano, nel rifiuto di quella non vita, si incupì sempre più. Una volta arrivati al Pireo, trovarono un treno che in poco meno di un mese condusse loro al campo di concentramento di Auschwitz– Birkenau.
Un posto da cui l’unica via d’uscita era la morte”
La fuggevolezza di incontri rimasti per sempre
Le crudeltà dei campi di sterminio, sono purtroppo e in gran parte note a tutti. Lì, il senso di comunità che aveva da sempre caratterizzato gli ebrei di Rodi era andato perso. La disperazione impediva a chiunque di provare empatia per l’altro. Tra i sentimenti più atroci che si provavano, il più doloroso era la rabbia di chi sentiva sfuggirsi la vita tra le dita. Sami, perderà tutta la famiglia e condurrà il resto della sua esistenza, in mancanza dell’affetto dei suoi familiari più cari.
L’unico episodio che tuttavia ci preme citare riguarda gli ultimi incontri che Sami ebbe con la sorella Lucia.
Gli uomini e le donne venivano divisi già sulla rampa, non appena si giungeva al campo. Perciò i due fratelli non su videro più dopo l’arrivo al campo di sterminio.
Ma un pomeriggio, a debita distanza dal filo spinato, Sami si accorse che qualcuno, dall’altra parte, lo stava salutando. A un primo sguardo la figura gli risultò irriconoscibile. Era una sagoma deperita, senza capelli e col pigiama a righe. Dopo un po’ di esitazione però si accorse che era lei, era sua sorella Lucia. Tremendamente provata da quella forzata agonia, l’immagine che si presentò a Sami suscitò in lui grande dolore e sofferenza.
Avevo un’immagine precisa di mia sorella. Me la ricordavo come una bella ragazza, con i vestiti colorati e i capelli lunghi. Quella sera invece i ritrovai davanti, a una distanza di circa trenta metri, una sagoma irriconoscibile. In poco tempo era diventata completamente diversa, non credevo fosse possibile un simile cambiamento, però era lei, era lei
Concordammo una specie di appuntamento: ogni volta che ci fosse stata la possibilità, ci saremmo incontrati in quel posto”.
Così, durante uno degli ultimi incontri Sami dispose in un panno, l’unico pezzo di pane che veniva dato ai deportati alla fine delle estenuanti giornate lavorative lunghe ben 12 ore. E si recò al solito posto:
Vidi Lucia e le feci capire a gesti che le avrei lanciato qualcosa. Feci volare il pane oltre il filo spinato e lei lo raccolse. Non appena vide di che si trattava, fece come per abbracciarmi. Poi tirò fuori anche lei un pezzo di pane e mi rilanciò il fagotto. Aveva avuto la mia stessa idea. Anche in quelle condizioni drammatiche, volle continuare a essermi sorella e madre. Fu una delle ultime volte che la vidi”
Un giorno non la vidi più, e c’è voluto del tempo per capire che mia sorella non ce l’aveva fatta, che se n’era andata via per sempre. Non volevo ammetterlo, ma poi ho dovuto arrendermi. Ho dovuto dire a me stesso, che l’avevo persa”
Il padre eterno mi aveva dato il piacere di vederla prima che morisse
La rinascita interiore
Fino ai primi anni del 2000 per Sami Modiano il rapporto con Aushwitz-Birkenau è stato di totale silenzio. Grazie però all’amorevole perseveranza della moglie Selma, ritornò in Polonia nell’ottobre del 2005 insieme ad un caro amico conosciuto proprio ad Auschwitz, Piero Terracina.
Mi ci vollero anni e tutta la pazienza di Selma per farmi accettare una semplice verità: scegliere di non sapere è il modo più masochista e inefficace per chiudere i conti col passato. Nascondere a noi stessi una pagina cruciale della nostra storia ci impedisce di andare avanti
La notte, dopo il primo ritorno ad Aushwitz, qualcosa in Sami Modiano lo cambiò per sempre:
Ero pervaso da una freschezza che non provavo da tempo, per un attimo tutti i miei pensieri avevano trovato il loro posto. Mi girai verso Selma in preda all’emozione:<< Selma>> le dissi, << ho capito perché sono sopravvissuto! Per raccontare la storia di quell’orrore, per trasmettere agli altri una testimonianza, in nome di tutti quelli che non ce l’hanno fatta>>.
Per questo preferiamo ricordare Sami Modiano, e tutti i quali sono ritornati dall’inferno dei campi di concentramento, non come i sopravvissuti all’olocausto, ma come:
I testimoni del MAI PIU’!
Dopo la liberazione del campo di sterminio avvenuta il 27 gennaio del 1945 a opera dell‘Armata Rossa, Sami Modiano venne curato da una premurosa dottoressa russa. La quale aspettò che fosse sufficientemente in forze e solo dopo dieci giorni, Sami rilasciò un’intervista alle truppe di giornalisti e fotografi russi arrivati per documentare gli orrori dei campi di sterminio nazisti. Soltanto nel 2011 Sami seppe che le sue dichiarazioni furono utilizzate a Varsavia nel corso del processo a carico di Rudolf Hob, primo comandante di Auschwitz.
B7456 è il tatuaggio che i nazisti impressero sull’avambraccio di Sami Modiano.
Di seguito una foto del 2017 ritrae Sami Modiano e la moglie Selma al termine di uno dei diversi interventi che dal 2005 Sami tiene nelle scuole di tutta Italia. I ragazzi che lo circondano alle sue spalle erano studenti del terzo anno del liceo classico “Bonaventura Secusio” di Caltagirone.
Da sinistra: Vincenzo Guglielmino, Ilaria Sileci, Michela Nolfo e Angelo Sileci.